7. nov, 2022
Che mi piaccia correre è risaputo. Lo so molto bene anche io. Quello che invece ho scoperto nell' ultimo periodo è che fatico a fare gare. Non fatico a correrle, in realtà, ma ad arrivare al luogo preposto, all' orario preposto, prendere il pettorale, lasciare casacca, aspettare lo start. A me piace uscire, e correre, senza pensarci, senza attendere nulla e nessuno. Mi piace il buio che mi protegge ogni mattina, mi piace il mio rituale di ritorno, doccia e colazione, e poi godermi il resto della giornata. Poi però la magia si compie: arrivo nel luogo della gara, espleto tutte le procedure del caso e quando inizio a correre tutto sparisce: ogni paturnie che mi sono fatta nel prima esce dalla mia testa ed esisto solo io e le mie sensazioni, come sempre. Ne seguo il flow, lo cavalco fino al traguardo. Ascolto le conversazioni altrui, i progetti di altri runners, il loro nodosi gestire la gara. Prendo atto di ciò che mi circonda e lascio che le gambe mi portino, che gli addominali mi sostengano, che i piedi rimbalzino ad ogni passo. Così se ne vanno i chilometri, ieri la bellezza del lago Maggiore, il suono delle onde e il fruscio dei tanti alberi sul percorso hanno sostituito per due ore il rimbombo cupo dei miei pensieri. Arrivo al traguardo. Basta poco a superare la propria comfort zone e arrivare dove la testa chiede. Davvero? Non sempre, ma sempre si tenta. Non sempre si vince sulle proprie abitudini, ma è un doloroso percorso che s' ha da fare. Non facile, non in discesa come l' arrivo di ieri. Però per lo meno si può far diventare pianura, piallando qua e là quell' abitudine che ostacola tante scelte, tante occasioni, tanti panorami migliori.